Una nuova ricerca portata avanti dalla saggista e giornalista Jessica Nordell, in collaborazione con il professore di informatica all’Università di Buffalo, Kenny Joseph e il suo assistente di ricerca Yuhao Du, offre una prospettiva diversa sui pregiudizi di genere nel mondo del lavoro, ponendo l’accento non sulle “discriminazioni vere e proprie”, che riguardano assunzioni e avanzamenti di carriera e che la maggioranza delle persone condannerebbe con facilità, ma sulle “micro-discriminazioni” che le donne si ritrovano a sperimentare giornalmente e che sono invisibili agli occhi dei più.
E sarebbero proprio questi “pregiudizi inconsapevoli” ad avere un maggiore impatto negativo sulla carriera delle donne, cosa che li rende ancora più pericolosi, in quanto difficili da riconoscere e sradicare. Alcuni esempi, riportati dalla stessa autrice, comprendono le opportunità di networking a cui le donne non sono invitate, l’aspettativa che siano sempre disponibili e pronte ad aiutare e l’appropriazione da parte di altri del merito rispetto al lavoro svolto.
Lo studio combina le ricerche effettuate da Jessica Nordell, volte a stimare l’impatto generale di queste forme meno evidenti di bias, con una metodologia innovativa basata su simulazioni al computer sviluppate dai due ricercatori informatici con cui ha collaborato. In particolare, si è cercato di riprodurre il modo in cui i freni artificiali allo sviluppo lavorativo delle donne impattino sulla loro carriera su un periodo di dieci anni, attraverso la creazione virtuale di un’azienda – la “NormCorp”-, in cui i dipendenti vengono valutati due volte l’anno per il loro lavoro ed accedono ad eventuali promozioni in base al punteggio che gli viene assegnato.
I risultati mostrano come, in una realtà con ‘solo’ il 3% dei pregiudizi di genere, a un’impiegata donna che inizi in una posizione base servano il doppio dei progetti di successo e più del doppio del tempo rispetto ad un collega maschio che inizi allo stesso livello, per arrivare ad una posizione esecutiva. Secondo Nordell dunque, quanto attualmente fatto (es. norme antidiscriminatorie, quote di genere) non basterebbe a contrastare un fenomeno che ha le sue radici non solo nell’aperta discriminazione o nelle molestie, ma anche in una serie di ostacoli sistematici “meno eclatanti” alla carriera delle donne.
Servirebbero invece altre misure, prime fra tutte, fare in modo che le decisioni su incarichi e promozioni vengano prese secondo criteri oggettivi, equi e trasparenti e, soprattutto, avere dei leader veramente attenti all’uguaglianza.